6 gennaio 1975: “Wish you were here” storia di un album che ha fatto la storia

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Correva l’anno 1975, quando i Pink Floyd si riunirono agli Abbey Road Studios per lavorare al nuovo album, Wish You Were Here. E faceva freddo. Era gennaio, il sei gennaio. Praticamente i Re Magi, quell’anno non hanno portato solo oro, incenso e mirra, ma qualcosa di molto più prezioso. La musica, quella bella, quella che si sente ancora oggi. E ci fa tremare. Eppure non fu una traversata del tutto semplice, la loro, anche perchè la stella che dovevano seguire o alla quale attaccarsi non era più tra loro.

 

«La verità è che stavamo cercando di fare il seguito di Dark Side of the Moon», racconta Nick Mason (il batterista), «e siamo tornati di corsa in studio. Siamo stati sottoposti a una sorta di ridicola pressione e in un certo senso abbiamo cercato di fare un disco dal nulla». Il loro primo disco aveva  fatto letteralmente il botto: ed è ancora oggi tra i dischi più celebrati della storia. L’ansia da prestazione per un secondo lavoro in studio era giustificata e prevedibile, dunque: la critica musicale, i loro fan si aspettavano moltissimo da quello che doveva essere il loro secondo lavoro in studio e, successivamente, è diventato parte della storia musicale contemporanea.

 

L’assenza di stimoli, dettata anche dal fatto che Syd Barret non stava proprio benissimo in quel periodo, divenne sempre più palpabile così come la pressione dei discografici, in quel momento più che mai, con il fiato sul collo. Come se non bastasse, lo spettro di Syd, del loro vecchio amico e fondatore della aleggiava su di loro, alimentando così i rimorsi per non aver fatto abbastanza nei suoi confronti affinchè risolvesse i suoi problemi e tornasse. A differenza di molte band dove il ricambio dei componenti non pesava così tanto sul gruppo, i Pink Floyd erano molto legati alla figura Barrett, il leader del gruppo, che ammaliava chiunque con il suo genio distorto e anarchico.

 

La copertina dell’album “Wish You Were Here” pare essere nata da lunghe discussioni con la band e coloro che hanno curato la grafica, portando tutti ad un unico pensiero: rappresentare l’assenza. Proprio da questo nasce il concept della foto in copertina: due uomini si stringono la mano per suggellare un accordo. Lo stringersi la mano per come spesso la stretta di mano venga considerata un gesto vuoto e privo di senso. Anche le fiamme sono in tema: rappresentano la tendenza delle persone a rimanere assenti appunto, a non farsi coinvolgere troppo, emotivamente, per evitare di bruciarsi. Una delle chicche dell’album sono le fiamme che bruciano alle spalle dell’uomo a destra sulla copertina dell’album in quanto sono reali, non un fotoritocco, di quelli che siamo abituati a fare da quando esistono app che ce le consentono.

 

L’agenzia all’epoca chiamò due stuntman per lo scatto. Quello sulla destra che prende fuoco si chiama Ronnie Rondell che dichiaro’ «Avevo fatto un sacco di lavoro sul fuoco in quei giorni, con le tute speciali e persino l’attrezzatura per farmi completamente avvolgere dalle fiamme. Quindi prendere fuoco soltanto in alcuni punti mi era sembrato un lavoro più semplice e meno rischioso». Il fotografo Aubrey Powell, che stava dietro la macchina fotografica, ricorda perfettamente il momento dello scatto e sopratutto che, dopo una quindicina di scatti molto veloci, il fuoco aveva ormai raggiunto la faccia di Rondell: «Cadde a terra, completamente ricoperto di schiuma dell’estintore e di coperte e disse “Ok, è tutto. Basta!”».

 

Wish you were here è un album che ci parla di un’assenza palpabile, un’assenza che diventa presenza, un’assenza che non è fine a se stessa. Ma che chiama, si cerca fortissimo. “Vorrei tu fossi qui”, è traducibile così, in italiano il titolo dell’album e della canzone forse più famosa della band. E quella voglia di ritrovarsi, di non dimenticarsi, di continuare a cercarci, non richiede solo una persona dall’altra parte, ma anche una buona fetta di noi stessi. Un’assenza, che ritroviamo attuale, in questi ultimi periodi. Un’assenza che trova nelle parole e nelle musiche di David Gilmor e di Roger Waters, una critica anche verso l’industria discografica di quel tempo.  Contemporaneamente l’album affina l’ingombrante e talentuosa figura di Syd Barrett, troppo fragile e delicato per resistere a un sistema che può bruciarti davvero dentro solo toccandoti. E che successivamente se gli va da schifo tutto il resto, torna a prendere le tue ceneri per rivenderti e fare ancora più soldi.

 

 

 

 


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