“Cosa resta dei vetri”: la poesia di Elisa Nanini

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“…il letto farà finta di dormire

le auto ascolteranno la musica

le biblioteche sfoglieranno pagine

il parco riderà, cambierà.

Dicono che l’assenza parli

come una conchiglia all’orecchio:

la domanda interpreta

gli strumenti delle arterie,

le onde infinite si regalano

a geometrie intrecciate.”

 

L’analisi della poesia di Elisa Nanini parte da questo pezzo estrapolato nel mezzo di una lettura apnoica, nella quale chi vi si immerge non può sottrarsi all’ineluttabile processo di trito assorbimento del pensiero con i variegati elementi della natura descritti nel testo. È infatti nelle infinite sfumature in cui si dissolvono la natura e le cose costruite dall’uomo che si ritrova il grido sommesso e ovattato del dolore profondo dell’autrice. Nei loro frammenti si mescono, distinti, i resti di un sentimento latente, per poi unirsi, confondersi e confondere le crepe di una disfatta. Allora la natura si ricompone, anche se non perfettamente, plasmando una nuova forma fatta dei resti del mondo inanimato e di quelli delle umane sembianze. Indistinguibile massa organica? Non esattamente, perché proprio in quelle icastiche e minime imperfezioni si riconosce il dolore, quello umano, fatto di materia divina, diversa, distinta e distinguibile: l’ultima traccia di un sentimento immortale.

 

Il contesto urbano e quello campestre sono degli elementi preponderanti nella silloge, e assumono più propriamente la forma dei ricordi a cui sono attaccati i sentimenti: i luoghi sono quelli vissuti da Elisa e si estendono in lungo e in largo, abbracciandone gli aspetti universali e particolari. Si parla di Modena, Bologna, dei monti dell’Appennino Tosco-Emiliano, fino ad arrivare alla Riviera romagnola. Si sprofonda in questi mondi, fino ad assaporare il vento e gli odori di luoghi particolari: il freddo di una strada, l’odore di benzina, un sentore dietro l’angolo. “L’incubo della malattia lungo una scia di macchine”: è il richiamo del dolore che brancola nei luoghi più cari; un dolore ineluttabile, irreversibile, che striscia sornione ed equanime, senza dar voce alle incrinazioni del mondo. L’affetto latente per una madre che, verecondo, si nasconde e dà il meglio di sé solo al mostrarsi di un epilogo incipiente. L’obiquità dell’essenza umana ha trovato un suo pezzo essenziale.

 

Cade dagli angoli degli occhi,

è articolo prima del nome.

Guardiamo il tramonto

in viaggio verso Modena…

 

Il timore di una mancanza sopravveniente è fonte necessaria di risveglio, per lasciare l’intorpidimento del cuore, sopraffatto da una razionale contraddizione. È forza divina che si cela nelle membra umane, si estende ed esplode, deflagra e attraversa le intercapedini del dolore per dare una forza nuova che ricordi il passato e dia importanza ai dettagli.

 

Cosa resta dei vetri, edito da Corsiero Editore, è un insieme organico e poliedrico di pensieri adorni di sapiente retorica, che confluiscono in un disegno ben definito, lasciando un dubbio insistente che stimola gli occhi di chi legge. Si viene così trascinati a poco a poco nel mondo di chi scrive, avviluppati da un senso onirico di ricerca del particolare, nel quale si finisce per esserne prigionieri: un riflesso della vita che si mantiene sull’equilibrio delle incerte prospettive umane.

 

“Un’arpa con una corda in meno

suona il suo corpo spezzato

lo sfondo senza fondo di una barca

che al mattino si sveglia.”


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